|  | Parlare dell’Advaita Vedanta può  essere fatto a vari livelli, storico, filosofico, in relazione ad altre vie, in  relazione a sé stessi (che è poi l’unico modo in cui mi sento di poter dire  qualcosa).Comunque sia, occorre però fare una  breve introduzione riguardo l’ambito storico-culturale nel quale tale filosofia  si è sviluppata, perché altrimenti molti suoi aspetti, anzi proprio quelli  secondo me più peculiari, potrebbero venire male interpretati, oppure ancor  peggio caricati di valori e significati che forse non corrispondono a quelli  originali.
 Più che parlare del e sull’Advaita  Vedanta infatti, ciò che vorrei condividere qui sono soprattutto alcune  riflessioni riguardo a come si possa reagire davanti alla “sfida” che l’Advaita  Vedanta ci pone.
 Innanzi tutto, prima di Advaita, chiariamo cosa significa Vedanta,  letteralmente “fine dei Veda”. Quindi……Veda. A parte essere il risultato di  generazioni e generazioni di trasmissione orale di esperienze e di cultura  umana nel senso più ampio, essi rappresentano il corpus “religioso” delle  popolazioni Ariane che invasero il subcontinente Indiano qualche migliaio di  anni prima dell’era cristiana, sostituendosi alle (e facendosi influenzare  dalle) civiltà lì preesistenti, a partire dalla cosiddetta “civiltà dell’Indo”  (siti di Mohenjo Daro e Harappa, attuale Pakistan) e fino successivamente alle  popolazioni dravidiche del meridione, scure di pelle, che nell’epica del  Ramayana vengono indirettamente ma decisamente associate ai “demoni cattivi”  stanziati nell’isola di Lanka, che agli ordini di Ravana tanti guai provocarono  ai “buoni” di stirpe ariana ed in particolare all’eroe Rama. Tali civiltà, come  d’altronde quelle mediterranee pre-greche, erano perlopiù contadine, in qualche  misura ”matriarcali”, legate alla natura ed ai suoi cicli. Gli Ariani, più guerrieri  e patriarcali nei valori proposti, svilupparono contestualmente a questo  incontro-scontro di civiltà una religione “della Natura”, con dèi maggiori e  minori incarnazione delle forze naturali, Surya (il Sole) in testa, Indra (la Pioggia/Tempesta), Agni  (il Fuoco), Vayu (il Vento) etc…, con miti che ne illustrano i legami palesi e  occulti, dove la Natura  è relazionata all’Uomo e l’Uomo alla Natura. E’ centrale il concetto di  Sacrificio, azione rituale fatta per ingraziarsi gli dei ed ottenerne i favori  che permettevano di ottenere quanto voluto, concetto che velocemente travalica  il significato originario per assumere una connotazione onnipervasiva ben  analizzata, documentata e spiegata nel saggio L’Ardore di R.Calasso (Adelphi 2010).
 Rig (inni) Sama (melodie) Yajur (mantra e  formule sacrificali) e Atharva (ultimo e più “magico”) sono i nomi dei quattro  Veda, ciascuno con alcune parti dette Samhita e Brahmana dedicate ai brahmani,  casta sacerdotale deputata al tramite fra gli uomini e il divino, e altre dette  Upanishad, letteralmente “insegnamenti dati a chi ascolta” all’interno della tradizionale  relazione Guru/Chela, cioè Maestro/Discepolo. Il corpus delle Upanishads è ciò  che viene indicato come Vedanta.
 UTTO …… 1a SE Le Upanishad più antiche sono  impregnate di linguaggio ed immagini bucoliche, fanno riferimento ai vari tipi  di sacrificio ma anche ai loro significati trascendenti le contingenze  immediate, arrivando a formulare nella Chandogya Up. il famoso detto “TatTwamAsi”  che sarà come vedremo una delle espressioni fulcro dell’insegnamento advaitico.  Quelle più recenti sono invece maggiormente filosofiche, dove le storie narrate  valgono principalmente come contenitori per discorsi sul senso del mondo,della  vita, della morte, dell’Uomo.Va ricordato comunque che prima di  essere scritti i Veda furono tramandati (e modificati/adattati) oralmente per parecchi  secoli, da cui deriva il loro tradizionale risalire “alla notte dei tempi”.  Inoltre è importante sottolineare che nella cultura indiana solo i Veda sono Sruti (cioè “rivelazione”),  donati agli uomini dai mitici Rishi non perché a loro volta ricevuti da qualche  dio benevolo, ma per  PERCEZIONE DIRETTA  del loro contenuto; tutto il resto degli innumerevoli testi filosofico-  religiosi indiani ( Purana vari, Mahabharata con al suo interno la famosa Bhagavad  Gita, Ramayana, BramaSutra, Tantra di diverse tendenze, ManuSmriti, etc..) è invece  considerato Smriti, cioè testimonianze, elaborazioni, inferenze ed esemplificazioni  che per quanto importanti ed illuminanti possano essere non avranno comunque  mai l’autorità e lo status di Verità indiscutibile riservati ai Veda (cfr.  Brahma Sutras III.ii.24 : “Gli Yogi Lo  vedono durante l’adorazione, per percezione (le Sruti) e inferenza (le Smriti)”).
 Dall’appena citato aforisma si può  comprendere anche l’enorme ruolo che in quest’ambito gioca l’interpretazione, giudicata corretta o  meno in base a ben precise regole grammaticali-sintattico-semantiche largamente  citate ed usate come armi dialettiche nelle diverse diatribe  filosofico-dottrinali del tempo, nonostante l’enorme precisione della lingua  sanscrita. Anche per questa ragione, cioè sulla base delle successive diverse  interpretazioni ed elaborazioni, il Vedanta si suddivise poi in Dwaita,  Vishistadvaita, Advaita (rispettivamente Dualista, Non Dualista Qualificato,  Non Dualista).
 Mi sembra qui utile ricordare che  Induismo è il nome dato dagli Inglesi al corpus totale della religione degli Indiani-Indù.  In effetti al suo interno possiamo trovare di tutto, aspetti vedici  (soprattutto legati ai sacrifici), aspetti puranici (con tutte le varie  divinità mitologiche e le loro saghe), aspetti legati a vecchi rituali pre-ariani  magici, della fertilità, potremmo dire “dionisiaci” (vedi “Shiva e Dioniso”di A.Danielou), filosofie interpretative di tutto  ciò e delle reciproche varie relazioni. La stessa assai menzionata Trimurti, “trinità”  formata da Brahma-Shiva-Vishnu, è di origine post-vedica, con Shiva e Vishnu  diventati poi per i rispettivi devoti sempre più sinonimi di Ishwara, il Dio  Unico del quale tutti gli altri dei e tutto il resto della manifestazione  visibile ed invisibile non sono altro che manifestazioni-aspetti.
 UTTO …… 2a SE Nella storia e nello sviluppo della  filosofia e religione indiana si possono infatti identificare varie  tendenze  e correnti, dal nichilismo  all’idealismo, al materialismo e altro, spesso in netto contrasto l’un l’altra,  fra le quali nel tempo si sono stabilizzate e consolidate soprattutto il Samkya/Yoga  (dualistica) e l’Advaita Vedanta (non dualistica), oltre a vari movimenti  Bhakti dove l’aspetto filosofico è secondario rispetto alla pratica devozionale  rivolta all’aspetto prescelto della Divinità. La principale divisione da tenere  presente è comunque quella fra darshana (cioè visioni) Ortodosse (comprendenti quelle precedentemente citate), che  riconoscono l’autorità dei Veda, e quelle Eterodosse che non la riconoscono. Fra quest’ultime la principale è sicuramente il Buddhismo  originale di Gautama, nato dal tentativo di contrastare l’assoluto potere in  campo metafisico  detenuto dai Bramani, che  predica il superamento del valore totalizzante dato al Sacrificio come unico  mezzo per trascendere il normale livello coscienziale legato alla vita quotidiana.  Buddhismo che con Ashoka, imperatore Maurya del 3° sec. a.c., diventa assolutamente  predominante in India  al punto da  far quasi sparire o almeno ridimensionando  notevolmente l’influenza del Bramanesimo originale, Buddhismo che verrà poi  lentamente “risucchiato” dalla rinascita del bramanesimo e dall’avvento di  quello che diventerà poi l’Induismo.Una delle diatrìbe principali, presente soprattutto durante i primi  secoli dell’era cristiana, fu quella fra il Buddhismo, la cui teoria  dell’impermanenza veniva assimilata dagli oppositori ad una forma di nichilismo  e su tali basi contrastata, ed il Vedanta che al contrario affermava il Brahman quale Realtà assoluta, concetto  ovviamente di derivazione vedica e difeso facendo leva proprio sulle  affermazioni dei Veda. Oltre agli scontri, spesso anche aspri, fra diverse  dottrine e diverse visioni del mondo, c’era comunque anche chi andava cercando  una sorta di “mediazione” o meglio di sintesi fra le due visioni, potremmo forse  meglio dire una sorta di “interpretazione” delle novità proposte dal Buddismo  in chiave compatibile con gli insegnamenti Vedantici. Fra costoro si colloca  Gaudapada, guru del guru di Shankara, che con il suo Agamasastra ed altri lavori confronta ed accosta l’impermanenza-irrealtà  buddhista con la manifestazione multiforme che percepiamo, vista questa come  sovrimposta da Avidya (non-Conoscenza) su Brahman, unica Realtà esistente e  sottostante a tutto ciò che appare. Shankara poi, figura a metà fra mito e  storia soprattutto in relazione all’epoca ed agli episodi della sua vita (si va  dal 550 all’ 800 d.c., ma c’è chi lo poneLa situazione indiana dei mille  anni a cavallo dell’anno zero cristiano, dal 500 a.c. al 500  d.c. circa, risulta quindi filosoficamente  molto fluida, con vari aspetti e varie tematiche che si sovrappongono,  integrano,accettano, rifiutano, reinterpretano vicendevolmente, con l’uso di moltissima  dialettica che risulta essere una delle caratteristiche fondamentali del  confronto fra idee diverse sia nell’India antica che in quella moderna (per maggiori  dettagli ed esemplificazioni occorrerebbe uno studio storico/filosofico di  grande peso e grande respiro, fuori luogo nel presente contesto).
 UTTO …… 3a SE addirittura prima di Cristo), in  qualche modo è il simbolo e l’artefice della successiva restaurazione  brahmanica e vedantica, che si concretizza  però su un piano diverso da quello originale puramente vedico!Shankara è totalmente ortodosso,  l’autorità dei Veda è per lui indiscussa così come il ruolo delle caste ed  altre “rigidità” della visione bramanica, però attraverso i suoi commentari  alle varie Upanishad, ai Brahma Sutra ed alla Bhagavad Gita, oltre a varie  opere di divulgazione ed analisi della filosofia Advaitica,  confuta tutte le varie posizioni precedenti  (e soprattutto quello che lui chiama il nichilismo  buddista), portandosi sulla scia di Gaudapada ad una visione realista di  Realtà Unica =Brahman che sottostà a tutto, Realtà indifferenziata, immutabile,  eterna, al di là di ogni possibile caratterizzazione.
 Come esempio dell’azione letteraria  di Shankara voglio ricordare in particolare il suo commento alla  Mandukyopanishad (12 sloka relativi al simbolismo di A, U e M nell’AUM, già  commentati e “sviluppati” da Gaudapada nei suoi Karika) che è intrecciato al  suo commento dei Karika medesimi, opera che in totale partendo dai soli 12  sloka dell’Upanishad arriva ad occupare un intero volume.
 Da sottolineare è anche la modalità  di analisi e di presentazione adottata da Shankara nei suoi lavori. Molto  spesso sono sviluppati in forma dialogica, magari simulata, fra lui  ed il contendente, dove tutte le affermazioni  o confutazioni sono portate “in punta di fioretto”, con analisi minuziose di  tutte le possibili implicazioni di ogni particolare sia da una parte che  dall’altra, citando le strutture logico/grammaticali che inducono a certe  conclusioni piuttosto che altre, con confronti e richiami ad altre affermazioni  analoghe od opposte in altri contesti, dando sì spazio alle proprie  considerazioni personali ma “rivestendole” sempre di un’autorità vedica-logica-esperienziale  che le avrebbe dovuto porre fuori discussione  (n.b.: bisogna tenere presente che in India, sia storicamente che filosoficamente,  c’è sempre stato e c’è tuttora spazio per sintesi-sincretismi-interpretazioni  anche totalmente opposte della stessa cosa che convivono nel tempo e nello  spazio, e da qui discende l’importanza e la necessità di corroborare sempre con  argomenti il più possibile validi le proprie affermazioni e le proprie  confutazioni. Come esempio quasi contemporaneo di tutto ciò posso citare  Prabhupada, fondatore del movimento degli Hare Krishna, che nel suo “La Gita così com’è ” chiama gli Advaiti  “eretici” solo perché nella loro analisi non si attengono alla pura lettera del  testo sacro). Come già detto c’è poi, oltre ai commentari, tutta una serie di altre  opere attribuite a Shankara (VivekaCudaMani,  Dakshinamurti Stotra, Atmabodha, etc…) nelle quali si affrontano temi  specifici o generali riguardo il mondo, l’uomo, il sentiero per la Liberazione , la  dottrina Advaitica stessa,  trattati sempre  e comunque in chiave strettamente monistica, o meglio Non-Duale (come vedremo non  è proprio la stessa cosa).
 UTTO …… 4a SE Dopo Shankara, seguendo ma anche reinterpretando  il pensiero del maestro, apparirono varie sottocorrenti advaitiche, differenti fra  loro più per cavilli dottrinali che per la sostanza. Inoltre seguendo l’esempio,  il metodo ma non il pensiero dello stesso, Ramanuja successivamente interpretò  il vedanta in chiave Vishistadvaita, ed infine con Madhva si ebbe poi l’interpretazione  dualistica propria della corrente Dwaita.Un aspetto extradottrinale che  accomuna comunque le varie correnti è quello dell’importanza di fatto data all’aspetto “scolastico”,  di studio potremmo dire, della relativa Sadhana (=disciplina) praticata,  ed infatti anche i vari diversi ordini di  Sannyasi, riformati e riorganizzati proprio da Shankara, sono tuttora molto  portati allo studio ed alla divulgazione, oltre ovviamente alla ricerca della  realizzazione personale. Per completezza riguardo tale argomento bisogna comunque  ricordare che parallelamente ai precedenti, e con rapporti più o meno stretti  con questi, c’è tutta una pletora enormemente variegata di sadhu-sannyasi  più o meno “fai da te”, che interpretano e  vivono tutte le possibili sfumature dell’uomo che si dedica al trascendente,  dalle più basse alle più sublimi.
 Penso  che per quanto riguarda il “venire in contatto con questa illuminante  filosofia”, come richiesto nella presentazione del presente studio, abbiamo ora  una cornice storico-relazionale essenziale ma sufficiente per poterci  confrontare in prima persona con l’argomento. Cerchiamo quindi ora di ”approfondire  alcuni dei suoi aspetti più significativi”, come parimenti si richiedeva,  tenendo conto che la soggettività e parzialità insite in ogni valutazione sono  determinanti nella scelta di che cosa volersi qui occupare. Reputo d’altronde  che una trattazione sicuramente più completa, organizzata, e soddisfacente  l’interesse dello studioso dell’insegnamento vedantico nei suoi diversi aspetti  ed implicazioni, si possa trovare nei numerosi studi specialistici disponibili sull’argomento.
 Volendo qui allora mirare direttamente al  nocciolo della questione, possiamo sicuramente dire che il fulcro dell’insegnamento  advaitico è l’identità del Sé individuale (Atman) con il Sé universale (Brahman),  assieme alla correlata identità di  tuttoin Brahman, condensata nei Mahavakyas vedici TatTvam Asi (Tu sei Quello),  AyamAtmaBrahma (Questo Atman è Brahman), etc…  Cornice ed al tempo stesso sublime conseguenza di tutto ciò è che esiste SOLO Brahman, UNITA’  indifferenziata, senza attributi, “QUELLO”  da cui la mente torna indietro, Neti-Neti (=né questo né quello), etc… e  TUTTA la Manifestazione è solo  Illusione-Maya, che viene superimposta su Brahman a causa dell’Avidya  (=Ignoranza), come “il serpente sulla corda” o “l’argento sulla madreperla”,  per citare classici esempi advaitici.
 Parallelamente il fine dell’Advaita  Vedanta, inteso come filosofia operativa, è la Liberazione,  cioè la Realizzazione  in prima persona dell’effettiva identità Atman-Brahman, assieme a tutte le sue  conseguenze (cfr. cap.7 e 8 di Vedanta  Paribhasa, ed. Advaita Ashrama 1989, Calcutta).
 UTTO …… 5a SE Una volta stabiliti cuore e  direzione dell’insegnamento advaitico, tutto il resto ne è sviluppo, elaborazione,  insegnamento, analisi.  Tutto sicuramente  estremamente importante ed interessante per poter approfondire degnamente  l’argomento, ma che in questa sede preferisco non affrontare direttamente,  lasciandolo come già detto ad altri più adatti e competenti di me, e volendo  invece occuparmi di alcuni aspetti della filosofia advaitica un po’  “trasversali” e per questo secondo me raramente sottolineati come meritano.Voglio pertanto cominciare sottolineando  la peculiarità del metodo investigativo vedantico per il quale viene reputato Vero  solo ciò su cui convergono  Sruti, insegnamento del Guru ed esperienza diretta personale. Conseguenza di  ciò è che tutti gli sforzi, il “lavoro” da fare, ed in ultima analisi tutto il  valore dello studio-ascolto-riflessione-meditazione nelle diverse forme, sta  nell’ottenere tale convergenza.Tre approcci,  tre vie che per essere efficaci devono portare tutte nel medesimo punto: solo  lì sta il Vero! Ovviamente tutto ciò “spinge” a cercare di adattare in qualche  modo le risultanze delle tre angolazioni, limandone e reinterpretandone le  divergenze, puntualizzandone meticolosamente i più piccoli particolari, sempre nel  tentativo di ottenere la sospirata convergenza (come esempio di quanto appena  detto porterei il già citato testo Vedanta  Paribhasa, di scuola Vivarana, una delle due correnti principali che fanno  riferimento ai due primi discepoli di Shankara, Padmapada* e Vacaspati.  In questo testo sul Vedanta ci si occupa infatti all’inizio della validità dei diversi  strumenti di conoscenza e dell’analisi meticolosa degli stessi, occupando ben sei  capitoli, per poi lasciare ai soli ultimi due il compito di occuparsi direttamente  del soggetto dell’Advaita Vedanta e del suo fine).
 Prendendo ancora il Vedanta  Paribhasa come spunto di riflessione, potremmo cercare di usare la sua stessa  strategia operativa per studiare-commentare-occuparci in qualche modo delle varie  modalità relative a come avviene che  Maya entri in azione, a come possiamo uscirne, a come possiamo infine  entrare veramente in contatto con la Realtà   Ultima asserita dal Vedanta.
 In questo testo infatti, dopo l’affermazione iniziale TatTvamAsi,  si procede analizzando cos’è Tat, cosa Tvam, quali sono gli aspetti essenziali  e quali quelli secondari di Brahman, le differenze e le identità fra le varie  “vie”, e così via …in ultima analisi tutti i vari “come” e “perché” le cose  sono come sono e appaiono come appaiono (per es. nel commentario a pag. 210  dell’edizione citata si afferma che “il  Brahman inaccessibile alla mente di certi passi delle Upanishad si  riferisce alla mente non purificata”, e da qui se ciò sia vero o no, oppure  come purificare la mente, diventa
 *   avendo citato Padmapada,  è utile ricordare che nella vita tradizionale di Shankara si parla di lui come  di un suo grande oppositore che, al termine di un confronto al quale persino  gli dei vollero assistere, riconobbe la verità dell’insegnamento di Shankara e  divenne il suo principale discepolo, a riprova di quale era il senso e su quali  basi si muoveva allora il confronto ideologico, almeno ad un certo livello. UTTO …… 6a SE materia per altre pagine e pagine,  analogamente a come precedentemente per pagine e pagine si è   trattato dei diversi mezzi di conoscenza,  del loro significato, delle reciproche differenze e gradi di validità). Non a caso il titolo di quest’opera significa “il Canto del Liberato”,  simile al canto libero di un uccello che è uscito dalla gabbia che lo limitava.  Canta per la gioia, canta e così afferma la sua libertà, canta per  testimoniarla, non per descriverla o raccontarla. Chi o forse cos’è un Avadhuta  viene ben descritto nella prefazione all’edizione citata dell’A.Gita : ”Sebbene essere Avadhuta implichi  naturalmente la rinuncia, esso include un addizionale e persino più alto stato  che non è né attaccamento né distacco, ma al di là di entrambi. Un Avadhuta non  sente alcun bisogno diL’impressione qui è che a fronte di  un soggetto estremamente chiaro e conciso, pur se immane nella sua grandiosità,  nel tentativo di “percorrerlo-mapparlo” tutto lo si faccia inflazionare nella  sua dimensione descrittiva, ottenendo però a parer mio una contemporanea  proporzionale irrimediabile perdita della sua incommensurabile grandezza. Mi  sembra avvenga un po’ come quando, volendo ancora procedere una volta  “raggiunta” la vetta, si può SOLO scendere! Inoltre è chiaro che anche se la “vetta”  è una, tuttavia le “vie” per scendere dopo averla raggiunta (così come quelle  per salire!) sono molteplici, e pertanto soggette a reciproci molteplici  confronti che comunque non potranno mai riguardare l’unicità della vetta da cui  tutte dipartono! Ecco perché il cercare di seguire tale metodologia di lavoro  non mi convince completamente.
 Alternativa a questa, esiste però una diversa strategia per cercare di  esprimere completamente la sostanza dell’Advaita Vedanta.
 “Tutto è in verità l’assoluto Sé. Distinzione  e non-distinzione non esistono. Come posso dire: Esso Esiste/ EssoNon esiste ?  Sono pieno di meraviglia!” oppure “L’essenza e l’intero corpo del Vedanta è  questa Conoscenza, questa suprema Conoscenza: che Io sono per natura il  senza-forma e onnipervasivo Sé!” (rispettivamente sloka 4 e 5 dell’ Avadhuta Gita – ed. Sri Ramakrishna Math  1981). Bastano queste poche parole, estremamente chiare e palesi, dirette ,  sicure. Se poi non si reputa sufficiente per la comprensione l’averlo affermato  così chiaramente, invece di allontanarsi dal nocciolo della faccenda tentando  di portare argomenti a supporto della sua verità, si continua ritornando ancora  ed ancora sulla medesima Verità centrale ,unica , totale, onnicomprensiva,  ripetendola sempre uguale seppur in mille modi diversi ( “Sappi il Sé essere  dappertutto,uno ed ininterrotto. Io sono il meditante ed il più alto oggetto di  meditazione, Perché tu vuoi dividere l’Indivisibile?” oppure “Io sono invero  immutabile ed infinito, della forma di pura Intelligenza. Io non so come o in  relazione a chi gioia e dolore esistono” oppure “Io non ho attività mentale,  buona o cattiva; non ho funzioni corporali, buone o cattive; non ho azione  verbale, buona o cattiva. Io sono il nettare della Conoscenza, oltre ai sensi,  puro” , etc…., sempre da Avadhuta Gita).
 UTTO …… 7a SE osservare  qualsiasi regola, sia secolare o religiosa, Egli non cerca niente, non evita  niente. Egli non ha né conoscenza né ignoranza. Avendo realizzato che egli è  l’infinito Sé, egli vive in quella vivida realizzazione”.E’ indubbio che questo testo  incarna e mostra un diverso possibile approccio all’essenza della non-dualità,  o meglio alla sua esposizione/divulgazione. Invece di argomentare o dimostrare sulla  base dei Veda, di analisi, prove o convincimenti, semplicemente si afferma  direttamente il fulcro della faccenda stessa, e lo si ripete senza mai  discostarsene:      ESISTE solo Brahman,  e tutto, e io, e tu, e QUALSIASI altra cosa è SEMPRE e SOLO Brahman.
 Questo approccio diretto che non si  preoccupa di “sviluppare” il soggetto ma si accontenta di Viverne la Totalizzante Pienezza,  incarna meglio secondo me ciò che Shankara stesso nella parte finale del suo commentario  ai Karika di Gaudapada ha chiamato Asparsa  Yoga , o Yoga del senza sostegno: La  parola Asparsa-Yoga significa lo Yoga che è sempre ed in ogni aspetto libero da  “sparsa”, o relazione con qualsiasi cosa, e che è della stessa natura di  Brahman……Il non-dualista sa che persino coloro che vengono per litigare con lui  sono, in realtà, il suo proprio sé. Perciò egli non guarda nessuno come suo  oppositore (“Mandukyopanishad with Gaudapada’s Karika and Shankara’s  commentary”- Sri Ramakrishna Ashrama, Mysore 1974 – IV.2 ). A questo punto  sorge però spontanea la domanda sul come e perché, se tutto è così lampante, Shankara  stesso senta comunque la necessità di argomentare e di “convincere”  l’oppositore riguardo la validità delle proprie tesi.
 E’ interessante notare come per  certi aspetti del loro insegnamento i Vedantini più famosi e rappresentativi del  recente passato siano stati maggiormente simili nella loro testimonianza a  Dattatreya, autore dell’ Avadhuta Gita, che a Shankara, al contrario sempiterno  punto di riferimento per i Vedantini più rivolti allo studio ed alla pratica  “corretta” dell’Advaita, persone che hanno però lasciato ben poche tracce della  propria esistenza al di fuori dell’ambito prettamente accademico-filosofico.  Mentre infatti non saprei portare senza una ricerca apposita esempi specifici di  quest’ultima categoria, fra i maggiori esempi dell’Advaita del novecento è  facile ricordare i ben noti Ramana Maharishi e Nisargadatta Maharaj, l’uno più  testimone che divulgatore della propria Realizzazione, l’altro che da umile  venditore di bidi per “spiegare” il proprio stato coscienziale affermò: così disse il mio guru, io semplicemente gli  ho creduto, ed ho realizzato che aveva ragione. Sembrerebbe quasi che nel  ventesimo secolo si sia evidenziata maggiormente la posizione “radicale” di  Dattatreya rispetto a quella “scolastica” di Shankara, sebbene poi nel suo  studio e nel suo approccio si sia spesso ricaduti di fatto in una metodologia  più vicina alla seconda.
 UTTO …… 8a SE Confesso che ciò che più mi ha  incuriosito ed attratto durante la preparazione di questo studio è stata  proprio la consapevolezza della palese differenza di approccio nella  “esternazione” della STESSA posizione Advaitica fra Shankara e Dattatreya. A  tal proposito porto un ulteriore esempio:La constatazione di questa differenza di approccio, assieme alla precedente  riflessione riguardo i  DIVERSI modi per scendere  da una vetta dopo averla raggiunta,mi ha portato a considerare la possibilità che  l’uomo non riesca ad essere Uomo e ALLO STESSO TEMPO Brahman, come se  nell’essere Uomo, anche con la maiuscola a significare l’Uomo  perfetto-realizzato, sia implicita una seppur minima “dose” di limitatezza, e  quindi di dualismo, un certo “attaccamento” legato forse (perché no) ad un  certo “piacere” dato dall’essere nella condizione di Uomo. Da un lato il  proprio senso di limitatezza lo spinge a cercare la Completezza, l’Unità  Assoluta con il Tutto, dall’altro ciò“Questo Brahman è senza  nascita, libero da sonno e sogno, senza nome né forma, sempre effulgente ed  onnisciente. Niente deve essere fatto in nessun modo rispetto a Brahman”  (Mandukyopanishad with Gaudapada’s Karika and Shankara’s commentary”- Sri  Ramakrishna Ashrama, Mysore 1974 – III.36). Dopo questo Karika di Gaudapada, Shankara  (e ne fui MOLTO contento quando entrai in contatto con la sua opera!) usa ben  due pagine per elaborare, giustificare e “chiarire” il concetto espresso nelle  tre righe del Karika, e mi sembra indubbio poter affermare che lo fa su di un  piano prettamente analitico-mentale. Prendiamo invece i seguenti sloka: “Tu non  sei nato né morirai. In nessun momento tu hai un corpo. Le scritture dichiarano  in molti modi differenti il ben noto detto: Tutto  è Brahman” -  “Tu sei Colui che è  esterno ed interno. Tu sei il propizio Uno esistente in ogni luogo in ogni  tempo. Perché corri qui e lì illuso, come uno spirito immondo?” – “Unione e  separazione non esistono né per te né per me. Non c’è nessun te, nessun me, né  c’è questo universo. Tutto è in verità solo il Sé” (Avadhuta Gita – Sri Ramakrishna Math 1981 sl. I /13-14-15). Viene  espressa in fondo la stessa sostanza del precedente Karika commentato da  Shankara, però ripetendola indefinitamente, partendo da essa per tornare  continuamente ad essa, muovendosi su un piano esortativo più che didattico.  Dattatreya evidentemente non reputa che lo sviluppo dialettico e la spiegazione  possano aumentare la forza delle sue parole, e preferisce di conseguenza ribadirle  quasi ossessivamente da angolazioni leggermente diverse, insistendo sulla  autoevidenza e direi quasi ovvietà (per lui, naturalmente) di quanto  affermato.
 Entrambe le “strategie” precedenti  portano comunque alla stessa considerazione finale che TUTTO quanto di cui ci  si occupa, sia prima che dopo l’eventuale Realizzazione dell’identità  Atman-Brahman, esiste ed appartiene SOLO per chi ancora vive nella dualità, ed  anche i diversi insegnamenti ESISTONO ed hanno valore SOLO al di fuori della  loro attuazione, dato che in quel momento si realizza come TUTTO fosse  illusorio, né vero né falso, né esistente né non esistente. Ciò che è diverso è  il modo in cui si viene portati a tale conclusione.
 UTTO …… 9a SE sembra farlo tornare ad occuparsi  delle diverse forme di limitazione, molto umane, magari sublimi, magari Umane,  ma pur sempre appartenenti all’ambito della Non-NonDualità.Spostando poi il confronto fra  l’insieme delle posizioni Advaitiche e quello delle diverse filosofie  “dualistiche”, si può notare che mentre quest’ultime in modi diversi propongono  (coerentemente!!!) qualcosa di “diverso” da raggiungere, e quindi una via (in  quel contesto reale!) da percorrere, al  di là degli specifici insegnamenti proposti l’Advaita Vedanta ha nella sua  monolitica inattaccabile Non-Dualità la sua  forza e la sua “via”. Shankara la usa per confutare le tesi delle altre  posizioni, ponendo le diverse contestazioni alle diverse filosofie l’una contro  l’altra, per poi affermare conLa domanda che segue quindi è: l’Uomo  realizzato, l’Uomo liberato, è ancora Uomo?
 Una possibile risposta si può dare  tenendo presente il significato nel buddismo della figura del Bodhisattva. Infatti  quando (per esempio) Shankara “esce” dallo stato di Unità Assoluta (nel senso  che, dal NOSTRO punto di vista!, si “relaziona” con il mondo fenomenico) per  “mostrare il sentiero” oppure per mostrarne la sua “mancanza” (un non-sentiero  è comunque una forma di sentiero), tutte le sue spiegazioni, affermazioni,  confutazioni hanno un loro posto ed una loro valenza se  viste nell’ottica del rapporto fra la figura  del Bodhisattva e il mondo di chi Illuminato non è. Al contrario nel caso di  Dattatreya o di Ramana Maharishi, quando sempre dal NOSTRO punto di vista c’è  una qualche forma di relazione con il mondo fenomenico, ogni affermazione è  semplicemente una testimonianza ed un’esortazione ad “aprire gli occhi”,  prendendo atto di Ciò che comunque E’, senza alcuna possibilità di mantenere la  benché minima scala di valori fra diversi “stati”: esiste        SOLO Quello,  e TUTTO il resto non esiste, né ha senso quindi occuparsene!!!
 (“l’intero universo, a cominciare dal principio dell’Intelligenza  Cosmica, non è a me minimamente manifesto. Come può esserci per me qualsiasi  esistenza nelle caste o nei diversi stadi della vita?” oppure “il Sé certamente non diventa puro  attraverso la pratica dei sei aspetti dello yoga. Certamente non è purificato  dalla distruzione della mente. Certamente non è reso puro dalle istruzioni del  maestro. Esso stesso è la   Verità, Esso stesso è l’Illuminato” – A.Gita I/45-48).
 Corollario di quanto appena detto,  che per noi che stiamo da “questa” parte nella relazione con l’Uomo Realizzato  risulta un po’ spiacevole e sicuramente non consolatorio, è che nel primo caso (quello  del Bodhisattva) c’è spazio per l’Amore e la Compassione dei quali  noi possiamo essere in qualche modo “fruitori”, mentre nel secondo caso l’Amore  e la Compassione  che vengono espressi sono quelli universali, forme che l’Ananda-Beatitudine  (che assieme a Sat e Chit caratterizza Brahman) prende nella NOSTRA percezione.  Qui non c’è più spazio per un amore “personale”, per una compassione riguardo  la situazione del singolo. Qui l’Amore è la Gioia che deborda, il canto dell’Avadhuta, ed  anche la Compassione  è il “dispiacere” di non poter compartecipare né “aiutare” la compartecipazione  di …Ciò che si sta già compartecipando, ma di cui molti non sono coscienti.
 UTTO …… 10a SE rigore che l’unica posizione  difendibile è l’Advaita, immune giocoforza da simili attacchi: “Dove tutto è Uno , cosa o chi può  attaccarmi?” (ma anche “a cosa o a chi posso attaccarmi?” aggiungerei  io, un po’ maliziosamente). Spero a questo punto di  essere riuscito ad inquadrare almeno superficialmente per un verso l’aspetto  storico-filosofico dell’Advaita Vedanta, e per un altro alcune sue  problematiche che, considerate per quello che sono senza cercare risposte  definitive, possono aiutarci ad entrare meglio nei risvolti di tale filosofia,  al di là del sottolinearne limiti e contraddizioni vere o presunte,Però la stessa monolitica inattaccabile  Non-Dualità è anche per certi aspetti la “debolezza” di tale posizione, o  meglio la diventa quando vogliamo (da uomini, e forse talvolta anche da Uomini!)  una filosofia che ci aiuti, che  tracci una via, una via che  “ovviamente” vogliamo essere una via  reale di Conoscenza e di Realizzazione .
 Probabilmente è per venire in qualche  modo incontro a tali esigenze che sono state concepite le varie forme di  “liberazione graduale” che fanno parte degli insegnamenti Advaitici  più “elaborati”.  “Sono  coloro che aspirano alla Liberazione quelli che devono ascoltare, etc…, poiché  solo uno che desideri risultati finiti è qualificato per compiere i rituali  relativi. Per stimolare il desiderio per la Liberazione servono la  discriminazione fra cose eterne e transitorie, disinteresse per il godimento  degli oggetti dei sensi e dei loro effetti qui e in futuro, calma,  autocontrollo, ritiro in sé, forza, concentrazione e fede…………La meditazione sul  Brahman condizionato è anch’essa una causa della Realizzazione del Brahman  incondizionato, attraverso la concentrazione della mente. Quando la mente del  meditante viene posta sotto controllo dalla pratica della meditazione sul  Brahman condizionato, proprio quel vero Brahman incondizionato, liberato dalla  sovrapposizione delle qualità limitanti, manifesta direttamente Sé Stesso.  Coloro che meditano sul Brahman condizionato vanno nel mondo di Hiranyagarbha,  ed ottenendo lì la realizzazione della Verità attraverso l’ascolto etc..,  vengono liberati alla fine(dei tempi) assieme ad Hiranyagarbha” (Vedanta  Paribhasa,op.cit., pag.221-223-224). Ho riportato i precedenti spezzoni non  tanto per accennare alle modalità di liberazione graduale contemplate dal  Vedanta, quanto piuttosto per testimoniare ancora una volta come la natura  umana sia di fatto costretta a muoversi nell’ambito dualistico del divenire  temporale non appena cerca una “via”, per sua natura temporale. Li ho però  riportati anche per poter riaffermare che secondo me restano comunque tutti  insegnamenti “di fatto”, che cercano un qualche appoggio e una qualche  plausibilità mentale nel momento che il puro Asparsa, il SENZA SOSTEGNO,.  diventa (o meglio viene percepito come) pericoloso.  Ecco perché proprio all’inizio ho parlato dei  vari modi in cui si può reagire alla SFIDA dell’Advaita Vedanta, e come abbiamo  potuto vedere ciò è pertinente sia per chi è “fuori” ma anche per chi è  “dentro” tale visione.
 UTTO …… 11a SE riuscendo spero a cogliere almeno  un po’ di quel “sapore” che mi ha tanto attratto quando ci sono entrato in  contatto io stesso le prime volte, un genere di sapore che solo le cose vive  possono avere. Penso che limitarsi a “studiare” la  dottrina Advaitica sia un ottimo esercizio, ma che la vera sfida che vale la  pena intraprendere sia quella di “viverla”, almeno per quanto riusciamo a fare.
 La NonDualità non si può  capire, raggiungere, spiegare, illustrare, discutere, tanto meno pensare o  manifestare oggettivamente. Probabilmente si può solo ESSERE (la e/o nella NonDualità)……… …..ma fintanto che ci si aspetta di dover o  poter aggiungere qualcosa al semplice ESSERE resterà sempre un leggero velo di  dualità fra “chi” è  e “che cosa” è.
        Advaiticamente possiamo concludere solo  così ……………………………………………….. ..…………………………………………..(silenzio)……...………………………………………………….………………………………………….., e se al posto  dell’eterno silenzio del puro Essere vogliamo proprio metterci qualcosa, allora   possiamo solo ribadire che qualsiasi cosa diciamo, pensiamo o facciamo è illusione, non è Reale, è solo nome e  forma, è solo Maya.   La   NonDualità del  Brahman è la sola Esistenza (o NonEsistenza), al di là di TUTTO …… ……… ma  SEMPRE ed eternamente DAPPERTUTTO!
 UTTO …… 12a SE 
 Shivananda
 |  |