Prefazione  
     
 

Mi sento in dovere di premettere che lo studio seguente è nato in un contesto di ricerca all'interno di un gruppo della Società Teosofica Italiana, per cui i riferimenti e l'uso di termini e concetti piuttosto inusuali si spiegano con la presumibile conoscenza degli stessi da parte dei previsti fruitori di quanto detto. Pur rendendomi conto che il presente allargamento della possibile platea renderebbe doveroso un consistente allegato di note, chiarimenti e bibliografia consigliata, preferisco limitarmi al fatto che la Dottrina Segreta è il titolo dell'opera più significativa e mastodontica ( ben otto volumi nell'edizione italiana) di Helena Petrovna Blavatsky, indicata spesso con HPB, cofondatrice nel 1875 a New York della Società Teosofica. Chiunque desiderasse approfondire, integrare, verificare, contestare o confrontare quanto segue può così andare direttamente alla fonte che mi ha suggerito quanto poi autonomamente elaborato. Colgo l'occasione per ribadire che lo spirito con il quale questi studi e la loro condivisione vengono fatti non è certamente quello di affermare una qualsiasi forma di "verità", ma quello di fornire stimoli per la propria ricerca e tramite questa per la propria crescita e partecipazione alla Vita una che in ogni momento determina ed è determinata da quella che chiamiamo la "nostra" vita.


Elementi ed Atomi (Dottrina Segreta, vol. 3, sez.X): uno studio advatico

  Visto il titolo del capitolo in questione e visto il luogo dove si trova (vol. 3° della Dottrina Segreta, notoriamente dedicato soprattutto alla contestazione delle posizioni più materialistiche della scienza ottocentesca), ci si potrebbe aspettare un trattato "scientifico-esoterico" con vari spunti e osservazioni da cogliere e trasportare più o meno restaurate in questo inizio di ventunesimo secolo. Invece ben presto ci si accorge che la Blavatsky con pochi passi ben decisi ci porta diritti ad occuparci di temi del massimo grado di astrattezza-profondità, in un modo che, altrettanto esplicito, quasi mai mi è capitato di incontrare studiando la letteratura teosofica "classica" (per mia dichiarata ignoranza, sicuramente).
HPB comincia ricordando che la parola Elemento in occultismo non significa elemento chimico, inteso come caratterizzazione qualitativa di diverse tipologie di atomi, ma dichiaratamente Rudimento. Quindi Elementare significa sì semplice, ma solo nel senso di "ancora non complesso" non sviluppato. Riferito alla materia sottolinea testualmente che indica il suo stato Laya, "condizione eterna e normale che si modifica solo periodicamente; durante questa differenziazione la sostanza è in uno stato anormale, cioè è solo un'illusione transitoria dei sensi"; riferito all'uomo significa "l'uomo divino nascente che va distinto da quello mortale". Già qui l'uso delle parole anormale e illusione transitoria, assieme alla distinzione fra uomo divino e uomo mortale, ci può far riflettere sull'effettivo argomento in questione.
Passa quindi a considerare gli Atomi Elementari che senza esitazioni vengono interpretati come Anime (analogamente a quando in India con Anu, l'Atomo, si indicava Brahma), anime come "centri di vitalità potenziale contenenti intelligenza allo stato latente, e nel caso delle anime composte, un'esistenza intelligente ed attiva" a tutti i livelli, dal più alto al più basso. Ricordando poi che tutti gli antichi atomisti avevano questa visione degli atomi "animati", HPB stigmatizza di pari passo la visione scientifica moderna degli atomi come particelle invisibili e inanimate di materia bruta. Segue quindi una digressione tesa a confermare con esempi ed interpretazioni varie il fatto che Atomi ed Anime erano effettivamente sinonimi nei vari linguaggi iniziatici, ebraico- indù-epicureo, con i soliti interessanti confronti-scontri tra interpretazioni diverse, sulla validità dei quali si potrebbe discutere molto, sia in senso positivo che negativo, ma il farlo ora sarebbe fuorviante almeno rispetto al vero nòcciolo del tema trattato. Si finisce così dopo circa un quarto del capitolo a riaffermare il principio che gli atomi sono anime ed intelligenze, concetto peraltro implicito in Teosofia quando si afferma che tutto è vivo e intelligente.
     A questo punto, passando con apparente noncuranza per la constatazione che persino la scienza moderna ha dovuto accettare il principio che "nel regno dell'essere spirituale, psichico e fisico niente poteva venire dal niente", si comincia ad affrontare il concetto di causalità con estrema semplicità ma allo stesso tempo efficacia, constatando che tutto ha cause ed effetti, comprese ovviamente le varie cause delle cause, fino ad arrivare (direi io quasi con sorpresa, ma di sicuro senza volerlo sottolineare più di tanto visto che viene messo fra parentesi) al fatto che "la causa finale ed assoluta deve rimanere per l'uomo una incomprensibile causa senza causa", continuando subito dopo con la constatazione / suggerimento / chiarimento / ulteriore "mattone" da digerire che "tuttavia anche questa non è una soluzione, e bisogna vederla dai più alti punti di vista filosofici e metafisici, altrimenti è meglio non affrontare il problema. E' un'astrazione sull'orlo della quale la ragione umana, per quanto abituata alle sottigliezze metafisiche, vacilla rischiando di annichilirsi". Forse sarebbe meglio non dire niente, ma ritengo necessario invitare tutti a rileggere l'ultima frase ed a fermarsi un attimo per considerarne il peso e la portata.
A sostegno di tutto ciò l'autrice chiama in causa colui che lei stessa definisce "il vero Vedantino" dicendo "si studino i sublimi insegnamenti di Shankaracharya circa l'anima e lo spirito, e ci si renderà conto di quanto abbiamo detto".
Dopo tale invito, e dopo aver ribadito che "non c'è niente in questo Universo che si manifesti se non perché si trova già nell'universo stesso", HPB introduce la Monade formalmente solo come esempio per comprendere il vero punto di vista degli antichi iniziati riguardo quanto detto. Dice che essa è espressa sul piano oggettivo (dove "tutto è un eterno divenire perché tutto è transitorio") da Atma in unione con Buddhi e Manas. Aggiunge poi che sul piano soggettivo (considerato in "opposizione" solo dialettica rispetto a quello oggettivo della manifestazione) "questa trinità è una ed eterna, poiché i suoi due ultimi termini vengono riassorbiti dal primo al termine della vita condizionata ed illusoria". E qui mi sembra ci sia un'altra affermazione della massima importanza: Buddhi e Manas non sono dello stesso "livello" di Atma, o almeno non lo sono "sempre" (per quanto si possa parlare in termini spazio-temporali riguardo tali argomenti). Infatti l'autrice continua dicendo che la monade "si può seguire nel corso del suo pellegrinaggio e dei suoi mutamenti in veicoli transitori solo dalla fase preliminare dell'Universo manifestato. Nel Pralaya essa non si chiama più monade (ed io qui vorrei già osservare che cambiando nome in qualche modo "cambia" qualcosa, ma non ne ho quasi il tempo in quanto in questa esplosione accecante e paralizzante di affermazioni dirompenti, dopo una semplice virgola HPB continua aggiungendo che) e ciò accade anche quando il vero unico sé dell'uomo si fonde con Brahman, nei casi di alto Samadhi (Turiya) o di Nirvana finale".
Per cogliere il senso e le implicazioni di quanto detto penso non occorra riportare esattamente la frase di Shankara (che l'autrice riporta) dove si paragona l'abbandono da parte di Atma del suo corpo illusorio all'abbandono del costume da parte dell'attore; ritengo infatti sia più che sufficiente quanto già affermato per dare a tutti noi quello scossone "quasi definitivo" a cui l'autrice stessa accennava poco prima. E per quanto riguarda Buddhi–Manas? Quasi per prevenire la sorpresa e/o lo smarrimento di chi avrebbe letto nei secoli a venire le sue affermazioni, HPB specifica subito che "Buddhi, involucro (ricordo che con una geniale metafora PhanChonThon paragonava la natura di tali "involucri" a quella della pellicina che si forma sulla superficie di un budino) di Anandamaya è solo uno specchio che riflette la felicità assoluta, e questo suo riflettere non costituisce ancora lo Spirito supremo poiché è sottomesso a certe condizioni, è una modificazione spirituale di Prakriti ed è un effetto". Con quest'ultima parola ci fa così ritornare al punto di partenza di questo exploit, alla serie infinita di cause-effetti che si può individuare nella manifestazione, suggerendo però implicitamente che Atma resta l'unica causa incausata a tutti i livelli, fermi restando i pericoli e la delicatezza di tale formulazione, come già preavvisato dall'autrice stessa. E per mettere un ultimo sigillo a questa incredibile concentrazione di affermazioni aggiunge che "solo Atma è l'unico substrato reale ed eterno di tutto, l'essenza e la conoscenza assoluta, il Kshetrajna" (=conoscitore del campo; vedi per un'elaborata analisi di cos'è il campo e cosa il suo conoscitore il cap.13 della Bhagavad Gita).

  Nonostante a questo punto per mente e (perché no) fisico sarebbe forse più opportuna una buona pausa di riflessione, sebbene HPB non ne parli e nella visione teosofica "diadica" della Monade come Atma-Buddhi non si manifesti tale necessità, per onore di completezza mi permetto di aggiungere che anche il terzo polo della triade, Manas, va secondo me ovviamente accomunato nel suo "destino" a Buddhi, essendo Manas per certi aspetti associabile all'involucro cosiddetto Vijnanamayakosa che, come Buddhi, sempre involucro è. E visto che ho aperto la porta alle deduzioni personali vorrei aggiungere che a questo punto del lavoro ho avuto la visione del rapporto a volte per me poco chiaro fra quando nell'Advaita Vedanta si parla di Brahman e quando invece lo si indica con Sat-Chit-Ananda. Infatti dal momento che quest'ultime tre parole significano Essenza Conoscenza Beatitudine mi è sembrato chiaro alla luce di quanto visto finora assumere che con i due diversi termini semplicemente si indicano i due "poli" del rapporto fra Atma e la monade-trina AtmaBuddhiManas. Conseguentemente inoltre, rendendomi conto che la differenza fondamentale fra i due momenti è il riferirsi o meno alla Manifestazione, mi è tornata alla mente anche la sottile differenza/relazione vedantica fra Brahman ed Ishvara, o Brahma come viene a volte indicato introducendo una più che comprensibile seppur inevitabile confusione fra l'aspetto creativo (=Brahma) della trimurti indù BrahmaVishnuShiva e la loro Unità-sintesi che essendo nella (o meglio vista dalla parte della) Manifestazione ha ovviamente una considerevole affinità con la cosiddetta creazione. Ritengo comunque inopportuno elaborare qui la succitata differenza-relazione essendo stato chiamato in causa Ishvara solo per testimoniare un'associazione sorta quasi autonomamente, a testimonianza del fatto che veramente tutto è collegato a tutto, e a volte percorrendo nuove vie si giunge inaspettatamente a rincontrare vecchie conoscenze.
  Riprendendo dopo questa digressione l'analisi del testo in esame, si può dire che da qui in avanti, e quindi per quasi metà del capitolo (una decina di pagine), ci sono più o meno solo varie citazioni e comparazioni per rafforzare e sostenere con altri argomenti quanto già detto. Vengono fatti paragoni e fornite "spiegazioni" più o meno accattivanti ed interessanti riguardo molti particolari , spaziando HPB da maestra quale è fra miti e dogmi cristiani-ebrei-buddhisti-indù, antichi e non, con tutta una serie di elaborazioni e considerazioni di sicuro interessanti ma che sinceramente non mi emozionano più di tanto nemmeno in altri momenti, figurarsi dopo affermazioni della portata di quelle precedenti. Per non appesantire ulteriormente questo intervento lascerei perciò ai diretti interessati il compito di analizzare , se vogliono, questa seconda parte con sicuramente più speranze di fare delle scoperte rilevanti di quante non ne abbia io. Ci sono invece altri due tre punti che voglio evidenziare, premettendo che per ciascuno di essi mi limiterò a sottolineare gli aspetti più rilevanti non volendomi in questa sede addentrare in ulteriori analisi che farebbero lievitare enormemente le dimensioni dello scritto, e che comunque andranno fatte se si vorranno condividere le motivazioni a monte dello stesso.
  Il primo è un'ulteriore affermazione di HPB che sembra preparata apposta per coloro che si potrebbero sentire spaesati dal "declassamento" della monade. Infatti dopo un'altra pagina si legge "se l'Atma, nostro settimo principio, si identifica con lo Spirito Universale, e l'uomo nella sua essenza vera e propria è uno con esso, che cos'è allora la monade?". Penso e spero di non essere il solo a vedere in questa domanda un po' retorica la volontà di "sistemare" in qualche modo il vuoto, o meglio quella specie di blocco-inazione e (non sia mai) annichilazione che il "ridimensionamento" della monade potrebbe generare in menti non pronte a metabolizzarlo. La risposta che viene data ("è quella scintilla omogenea che emana i milioni di raggi dai sette raggi principali , è la scintilla che emana dal raggio INCREATO; un mistero") può forse soddisfare chi vorrebbe essere rassicurato, fornendo essa elementi per iniziare nuovamente ad elaborare una visione articolata del ruolo e della dinamica della monade; a me invece tale risposta sembra quasi un passo indietro (senza con ciò togliere la minima parte al valore della stessa: a volte un passo indietro è ciò che permette di sopravvivere), e di essa vorrei più che altro sottolineare e destinare alla nostra meditazione le due ultime parole: un mistero.
   Un altro punto da evidenziare in questa mia analisi è poi diventato il fatto che, quasi presagendo le elucubrazioni e le connessioni che mi sarebbero venute alla mente, dopo altre due pagine l'autrice mi ha fatto imbattere per tre volte nel termine Ishvara da me precedentemente scomodato. Secondo i vedantini (dice sempre HPB) esso "è la più alta coscienza della natura" ma secondo gli occultisti "questa più alta coscienza è solo un'unità sintetica avveratasi nel mondo del Logos manifestato e sul pianeta dell'illusione, perché è la somma totale della coscienza Dyan-Chohanica". Mi sembra che su quest'ultima frase ci sia molto da dire, specialmente riguardo il "livello" in cui viene collocata dalla Blavatsky (…solo un'unità sintetica…sul pianeta dell'illusione…) la somma totale della coscienza Dyan-Chohanica. Senza comunque elaborare ulteriormente questa prima ricorrenza del termine Ishvara, vorrei continuare testimoniando quello che le altre due ricorrenze mi hanno suscitato. Nella prima, immediatamente seguente alla precedente, HPB dapprima riporta una frase di Shankaracharia che esorta a "non continuare a pensare che il non-spirito sia lo spirito", per subito dopo commentarla dicendo che "Atma è il non-spirito nel suo stato Parabrahmico finale; Ishvara è lo spirito, unità composta degli spiriti viventi manifestati, il genitore primo e la sorgente di tutte le monadi terrestri, con i loro riflessi divini, che emanano dal Logos e vi ritornano al loro punto culminante". Come si può ben constatare si ribadisce qui ancora una volta quanto già detto prima, ma ciò che più mi ha colpito è stata l'interpretazione di HPB dell'uso che Shankaracharia fa dei concetti di Spirito e Non-spirito. Infatti nei miei ricordi relativi agli scritti di Shankara la suddetta dicotomia è invertita, con Spirito ad indicare la Realtà dell'Atma, unica vera essenza dell'uomo, e Non-spirito ad indicare tutto il resto, dal corpo materiale ai più sublimi livelli "spirituali" vicini ad Atma. Posso anche sbagliarmi, e comunque l'interpretazione di HPB mi piace avendo un suo fascino ed una sua forza.
   La terza ed ultima ricorrenza del termine Ishvara c'è infine dopo (più o meno) altre due pagine, e fa parte di una citazione del "traduttore del Crest-Jewel of Wisdom"(=Viveka-Chuda-Mani) di Shankara: "sebbene Ishvara sia "Dio", sempre uguale a sé stesso nei più profondi abissi dei Pralaya e nella più intensa attività dei Manvantara ancora al di sopra di lui vi è Atma, intorno al cui velario vi è l'oscurità della Maya eterna". Ciò che qui più mi ha più colpito, oltre all'ennesimo ribadire la "superiorità" di Atma rispetto a tutto il resto (come d'altronde ho già detto accadere in vari modi durante tutta la seconda metà del capitolo), è l'accenno al ruolo di Maya la cui citata "oscurità" può essere reputata tale solo in rapporto all'incommensurabile lucentezza di Atma-Brahman (e viene quindi qui vista nella sua radice velante di Avidya), mentre, come anche il precedente parallelo Buddhi-AnandaMayaKosa evidenzia, dal nostro (usuale) punto di vista Maya è luminosissima, essendo in un certo senso l'essenza stessa del dispiegarsi della manifestazione. A questo punto a me è tornata alla mente l'antica istruzione ripetuta numerose volte nella Chandogya Upanishad: TAT-TVAM-ASI (=Tu sei Quello), dove Tu (Tvam) si può riferire a qualsiasi aspetto di noi stessi vogliamo considerare, e Quello (Tat) … viene semplicemente additato da "lontano", senza neppure cercare di definirlo come Atma o Brahman, forse proprio nello spirito con cui HPB nella succitata affermazione indicava Quello come la Negazione di qualsiasi possibilità affermativa (Non-spirito); comunque anche questa è solo un'ulteriore testimonianza del fatto che le più strane associazioni sembrano sorgere autonomamente quando si cerca di vivere ciò che si studia.
   Il resoconto del mio studio del testo in questione potrebbe considerarsi concluso qui, sempre nei limiti più volte ricordati dovuti alla volontà di contenere le dimensioni del presente lavoro. Solamente come note a margine e spunti per ulteriori meditazioni voglio però aggiungere due riflessioni nate in un secondo momento leggendo un libro sull'Advaita Vedanta ed in particolare sulle relazioni soggetto-oggetto (di conoscenza).
   La prima è sorta sulla scia delle seguenti parole di Paul Brunton: "C'è l'assoluto Sé da cui nasce una scintilla come dal fuoco. La scintilla è detta Ego, e nel caso dell'ignorante essa si identifica con qualche oggetto simultaneamente alla sua nascita; Essa non può restare indipendente da tale associazione, questa associazione è ignoranza". Premesso che qui per associazione si intende la dinamica tripolare soggetto-oggetto-relazione (soprattutto quando il vero soggetto si scinde in soggetto conoscente e pseudo-soggetto conosciuto) , mi è particolarmente piaciuta la chiarezza e la forza dell'affermazione che proprio tale associazione (e non altro!) è ignoranza (=Avidya), per cui riprendendo quanto visto precedentemente riguardo la monade costituita da Atma associato a Buddhi e Manas, mi è venuto allora da pensare che è la monade stessa ad essere Avidya! Tale affermazione può sembrare provocatoria, ma se la si analizza con la giusta disposizione, senza alcuna pretesa di voler con essa rappresentare chissà quale verità, si vedrà che tutto torna, o almeno resta coerente pur se preso da quest'altro punto di partenza. Anche la coppia Buddhi-Manas, dualità/unità in qualche modo inserita in una trinità, si "risolve" quando si identifica con Buddhi l'aspetto prettamente velante associato ad Avidya e con Manas l'aspetto più proiettivo associato a Maya (è necessario comunque ricordare che a volte i termini Avidya e/o Maya vengono usati indipendentemente per indicare il tutto, "mascheramento" iniziale e conseguente "inganno"). Ribadisco comunque il valore di semplice ipotesi di lavoro per quanto appena proposto.
   La seconda riflessione invece, molto meno profonda e prettamente verbale, è nata dall'osservazione che ad un certo punto veniva indicata con atomicità (in corsivo nel testo originale) la condizione del soggetto quando è veramente soggetto di conoscenza, contrapposta alla dimensionalità (termine mio per indicare la possibilità di essere percepito) di quando è oggetto della conoscenza del…"soggetto". L'uso di tale termine mi ha riportato alla prima pagina del capitolo della Dottrina Segreta oggetto del presente studio, dove Atomo indica l'anima di qualsiasi cosa, il Sè di qualsiasi Elemento (= rudimento al confine della forma manifesta) così come di qualsiasi Unità Articolata (Molecolare, Cellulare, Personale o Transpersonale) si possa o voglia concepire. Come si vede, o almeno come mi è subito balzato agli occhi quando l'ho letto, c'è più di una (sorprendente, o forse no) affinità fra ciò che con tale termine si vuole indicare in contesti e momenti così diversi, quasi a sottolineare che veramente sotto l'apparente (mayaica) molteplicità c'è una indistruttibile immutabile inconoscibile ma assolutamente reale UNITA'.
   A questo punto veramente quanto volevo dire è stato detto, osservazioni e deduzioni, ipotesi e primi sviluppi. E' tutto da meditare, verificare, sviluppare ulteriormente, ma sicuramente dobbiamo ringraziare H.P.Blavatsky per averci dato la possibilità di confrontarci ancora una volta con l'eterno mistero della Realtà Una che è al tempo stesso l'infinita sempre diversa Pluralità, nel tempo e fuori dal tempo, presente in noi come colui che "studia" e fuori di noi come l'universo materiale, emozionale, mentale, causale che "è studiato".

Shivananda

 
 
 Stefano Lazzarich